Carmelo Favata,
nacque nel quartiere San Giorgio a Mandanici piccolo paese della provincia
di Messina il 14 maggio 1922. Durante la sua adolescenza aiutava suo padre
Saro nell'accensione dei lumi a petrolio che illuminavano le vie del paese,
nella gestione del cimitero, nella pulizia dei locali comunali, nella
spazzatura delle strade che la famiglia aveva preso in appalto.
Alla fine degli
anni trenta, ancora nemmeno ventenne, era perfettamente inserito nella
politica locale e nonostante la sua giovane età lottò duramente da comunista
convinto contro quelle classi sociali dei proprietari terrieri che tentavano
di soffocare il paese.
L'Italia era
già in guerra sin dal giugno 1940, aveva poco più di 19 anni quando nel 1941
fu arruolato nel regio esercito italiano. Raggiunse la sua prima
destinazione Car al 132° reggimento fanteria corazzata Ariete di stanza a
Rovereto in provincia di Trento.
Apprese le
tecniche sull'utilizzo degli armamenti in modo veloce tanto che fu
incaricato dai suoi superiori a fare da istruttore alle nuove reclute sulle
tecniche di montaggio e smontaggio dei quasi 25 pezzi che costituivano la
mitragliatrice Fiat 35 e quella Breda 34 entrambi i modelli in dotazione
all'esercito italiano.
Dimostrando
spiccate attitudini nell'uso delle armi fu inviato insieme ad altri quattro
commilitoni in Germania, alla scuola di Halle-Saale in Sassonia vicino a
Lipsia per partecipare ad un corso di addestramento della durata
trimestrale. Durante il corso fu loro spiegato con lezioni teoriche e
pratiche il nuovo cannone antiaereo flak capace di colpire oggetti volanti
fino ad un'altezza di dodici chilometri.
Era giunto
quasi alla fine del corso e quindi prossimo al rientro in Italia quando
l'andamento degli eventi storici fu modificato dall'armistizio di Cassibile
(SR) dell'8 settembre del 1943 gestito alla carlona dai comandi militari ed
istituzionali italiani.
Tutti i
corsisti furono radunati e fu loro comunicato della nuova situazione
venutasi a creare con l'armistizio.
Coloro i quali
avrebbero voluto continuare a collaborare con i tedeschi furono collocati da
una parte mentre la stragrande maggioranza decise di non collaborare. Questa
stragrande maggioranza fu capace di dire un NO istintivo e secco ad Hitler.
Furono ammassati da un'altra parte, disarmati, arrestati e considerati
traditori del Reich.
Favata fece
parte di quella stragrande maggioranza, decise di non collaborare, pertanto
divenne prigioniero di guerra dei tedeschi e successivamente fu considerato
internato militare (IMI).
Ormai avanti
negli anni con un pizzico di resistenza mi racconta quella pagina della sua
esperienza di vita che non ha mai voluto scrivere o raccontare ma che
avrebbe voluto solo dimenticare, rimuovere dai ricordi, come si trattasse di
un brutto sogno, di un film dell'orrore. Molti sono gli avvenimenti che
ricorda con nitidezza, mentre altri sembrano sbiaditi, scoloriti, forse
perché è forte il bisogno non solo di dimenticare ma anche quello di
stendere un velo pietoso sui grandi avvenimenti del ventesimo secolo che suo
malgrado lo hanno visto coinvolto in prima persona rischiando la vita giorno
dopo giorno.
In questo
luglio 2015, afoso da togliere il respiro, vinto dal caldo, e dalle mie
ricorrenti insistenze il sig. Favata ingrana la prima e parte a ritroso nel
tempo, tempo lontano più di 70 anni. L'amico Favata rappresenta un'icona di
un tempo andato, è uno dei pochi superstiti italiani che possono dire io
c'ero. Anche le scuole del Comprensorio dovrebbero contattarlo per sentire
dalla sua viva voce gli orrori della guerra che non è quella dei
videogiochi.
“Fummo
caricati come tante bestie su carri merci e trasferiti in Ungheria a Yuvetik
o qualcosa di simile, comunque nelle zone occupate dalla Germania mi dice,
poi ci hanno spostati in Iugoslavia.
Ivi giunti
siamo stati trasferiti nel campo di concentramento ZEMUN, zona nord di
Belgrado, dall'altra parte del fiume Sava. Zona che in quel tempo faceva
parte dello Stato indipendente croato degli Ustascia di Pavelic che di fatto
rappresentò un campo di lavoro forzato essendo stati costretti con le buone
o con le cattive ad aiutare i tedeschi nello spostamento degli armamenti e
del vettovagliamento.
Avevamo la
possibilità di muoverci all'interno della zona d'influenza tedesca, tanto
che ebbi l'occasione di conoscere una bella ragazza iugoslava che di nome
faceva Militza con la quale mi fidanzai.
Erano
continui i combattimenti tra i partigiani slavi e l'esercito tedesco.
Durante uno di questi scontri abbiamo avuto la possibilità di fuggire in
tre,però andammo a cadere nelle strette maglie dei partigiani slavi i quali
non credendo alla nostra storia ci puntarono le pistole alla tempia, ora al
cuore, ora all'interno della bocca. Riuscimmo a spiegare loro, masticando un
po' di iugoslavo, che facevamo parte dell'esercito regolare italiano e che
non avevamo niente a che spartire con le camice nere fasciste che in quelle
zone con lo scopo di reprimere il movimento di liberazione iugoslavo avevano
commesso efferatezze indicibili macchiandosi di atti inconsulti di razzie e
violenze. Tanto era l'odio contro gli italiani che abbiamo fortemente temuto
per la nostra vita, ma alla fine fortunatamente riuscimmo a convincerli,i
diffidenti rapporti iniziali si stemperarono, e ci inserirono a tutti gli
effetti nel loro organico e diventammo tutti brat, tutti fratelli. In seguito
seppi che quegli slalvi appartenevano alla XI divisione partigiana slava.
Riuscii a
dare di me un quadro positivo che convinse gli slavi a guardarmi con un
altro occhio. Si facevano dei tiri al bersaglio posizionando una latta molto
distante e con i fucili bisognava colpirla, per fortuna io sono stato
l'unico a riuscirci guadagnandomi il loro rispetto. Il mio nome di battaglia
fu Carmen.
Partecipammo
da subito nelle operazioni belliche contro i tedeschi,ma non avevamo quel
grande pozzo di odio che covava e colava come sudore negli slavi. Si
combatteva quasi sempre nelle impervie montagne o in fitti boschi, in
silenzio e al buio si preparavano le imboscate.
In una
occasione ricordo che cinque tedeschi, tra i quali un bel ragazzone di circa
due metri, circondati, uscirono dal bosco con le mani alzate invocando salva
la vita. Il soldatone tedesco ci fece capire di aver lasciato la famiglia
con quattro figli. Fossimo stati noi italiani a decidere sulla loro sorte
forse li avremmo fatti solo prigionieri. I partigiani slavi invece li
freddarono senza pietà davanti ai nostri occhi stralunati. Un conto è
sparare nel mucchio che vedi e non vedi un altro conto è uccidere a sangue
freddo degli uomini con le mani alzate.
Non eravamo
assassini, eravamo soldati e provavamo tanta solitudine nel vederci
coinvolti in tanta efferatezza.
Riuscimmo
una volta a circondare un gruppo di una novantina di tedeschi li abbiamo
catturati, li abbiamo posizionati lungo un dirupo, nudi come mamma li fece.
Un mio
superiore mi diede la sua pistola e mi disse di sparare ad ogni singolo
tedesco. Non ne fui capace, mi rifiutai, tutto impaurito dissi che non ne
ero capace. L'ufficiale partigiano slavo mi guardò storto ma non si scompose
più di tanto al mio rifiuto, e con la sua pistola ad uno ad uno uccise i 90
tedeschi che colpiti alla tempia caddero nella scarpata sottostante.
Finita la
brutale esecuzione, a dire il vero, mi aspettavo che l'ufficiale mi avesse
riservato lo stesso trattamento dei tedeschi, ma non fu così tanto da essere
qua ancora a raccontare l'episodio.
In una delle
tante azioni contro i tedeschi mentre imperversava un violento temporale
rimasi ferito alla mano sinistra. Non era facile individuare il luogo del
mio ferimento, eravamo, almeno noi partigiani italiani, fuori dal tempo e
dallo spazio. Il sangue, aiutato dalla pioggia, colava abbondantemente, fui
trasportato insieme ad altri feriti su di una carretta improvvisata trainata
da cavalli nel più vicino posto di medicazione male attrezzato e dopo una
ventina di giorni fui mandato in convalescenza a Zagabria.
In quello
stesso scontro contro i tedeschi un tale che di cognome faceva Battiato,
mentre il nome non lo ricordo,trovandosi in postazione fu tranciato a metà
petto da una mitragliatrice tedesca, non so come sia andata a finire ma
purtroppo credo proprio che il mio compaesano originario del catanese non ne
sia uscito vivo.
Dopo
dicembre del 1943 sono stato incardinato come tutti gli altri partigiani
italiani nella brigata Garibaldi al cui comando mi pare ci fosse Giuseppe
Maras.
Alla fine
della guerra i rapporti fra i partigiani italiani e quelli slavi andarono in
frizione sulle questioni calde dell'Istria, di Fiume, di Trieste nonché sui
facili eccidi delle foibe.
Nel marzo
del 1945 ci fu l'ordine di rientro in Italia ma prima ci fermammo al confine
tra la Slovenia e Italia pronti ad intervenire contro il nazionalismo
sloveno che tentava di allargare i propri territori.
Successivamente a piedi siamo scesi fino ad Udine dove in una delle tante
caserme abbiamo deposto le armi.
Ci
consegnarono la somma di lire 5.000 a testa ed una scheda personale, come un
foglio matricolare, andato perduto negli anni.
Fummo
caricati su carri merci per raggiungere le nostre residenze. Quando i treni
si bloccavano per i più svariati motivi proseguivamo a piedi o con altri
mezzi di fortuna. A Roccalumera il treno non aveva previsto fermata, ma
dietro mia richiesta il capotreno impietosito dalla mia divisa militare
decise di fare rallentare la corsa davanti alla stazione consentendomi di
saltare giù con il treno in movimento.
Eravamo a
settembre del 1945,non ricordo il giorno, anche se in qualche cassetto
dovrei avere un appunto in tal senso. Nessuno mi aspettava,ero diventato
fantasma,quindi a piedi presi la strada per Mandanici. Nell'attraversamento
degli abitati di Rocchenere e Pagliara in molti mi chiedevano notizie su chi
fossi, a quale famiglia appartenessi, e da dove venivo.
Arrivato a
Mandanici, dopo il primo disorientamento fui accolto dalla mia famiglia e
dalla cittadinanza tutta in modo commosso e festoso. Non ricordo la presenza
delle autorità comunali del tempo, ma sicuramente non c'erano, non
era facile per loro accogliere un partigiano”.
Al suo ritorno
s'impegnò in politica e nelle elezioni amministrative del 10 novembre 1946
fu eletto consigliere comunale. Così pure nelle successive elezioni del 3
aprile 1949. Fu Segretario del PCI locale svolgendo l'incarico con tanto
impegno tanto da avere 60 iscritti. Gli successe nell'incarico Angelo Costa.
Mandanici e le
condizioni economiche gli stavano molto strette così decise nel 1956 di
andare in Argentina alla ricerca di migliori fortune. A fargli il cosiddetto
atto di richiamo fu suo suocero Carmelo Misiti che da alcuni anni si trovava
in Argentina.
Nel 1963 lasciò
l'Argentina e fece ritorno a Mandanici, ma ancora per poco. Nello stesso
1963 partì per la Svizzera a fare il pittore in edilizia.
Ritornò, questa
volta in modo definitivo, a Mandanici alla fine degli anni sessanta. Divenne
imprenditore nel 1971 con la nota trattoria del Cacciatore non disdegnando
di eseguire dei piccoli lavori di pitturazione in edilizia.
Tiene molto
cari i ricordi cartacei di quegli avvenimenti che mi mostra con il giusto
orgoglio di chi sa di avere compiuto delle gesta importanti per se e per
l'Italia.
“il 5 giugno
del 1971 in occasione del ventesimo anniversario dell'unità antifascista
nella lotta di liberazione dei popoli iugoslavi e per ricordare il comune
contributo alla comune vittoria contro il fascismo e per l'unione e
l'amicizia tra i popoli il maresciallo Tito ha conferito al nostro
partigiano una medaglia ricordo in segno di riconoscenza e di
riconoscimento”.