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9 Agosto 2015

Carmelo Favata. Partigiano melanconico.

Carmelo Favata, nacque nel quartiere San Giorgio a Mandanici piccolo paese della provincia di Messina il 14 maggio 1922. Durante la sua adolescenza aiutava suo padre Saro nell'accensione dei lumi a petrolio che illuminavano le vie del paese, nella gestione del cimitero, nella pulizia dei locali comunali, nella spazzatura delle strade che la famiglia aveva preso in appalto.

Alla fine degli anni trenta, ancora nemmeno ventenne, era perfettamente inserito nella politica locale e nonostante la sua giovane età lottò duramente da comunista convinto contro quelle classi sociali dei proprietari terrieri che tentavano di soffocare il paese.

L'Italia era già in guerra sin dal giugno 1940, aveva poco più di 19 anni quando nel 1941 fu arruolato nel regio esercito italiano. Raggiunse la sua prima destinazione Car al 132° reggimento fanteria corazzata Ariete di stanza a Rovereto in provincia di Trento.

Apprese le tecniche sull'utilizzo degli armamenti in modo veloce tanto che fu incaricato dai suoi superiori a fare da istruttore alle nuove reclute sulle tecniche di montaggio e smontaggio dei quasi 25 pezzi che costituivano la mitragliatrice Fiat 35 e quella Breda 34 entrambi i modelli in dotazione all'esercito italiano.

Dimostrando spiccate attitudini nell'uso delle armi fu inviato insieme ad altri quattro commilitoni in Germania, alla scuola di Halle-Saale in Sassonia vicino a Lipsia per partecipare ad un corso di addestramento della durata trimestrale. Durante il corso fu loro spiegato con lezioni teoriche e pratiche il nuovo cannone antiaereo flak capace di colpire oggetti volanti fino ad un'altezza di dodici chilometri.

Era giunto quasi alla fine del corso e quindi prossimo al rientro in Italia quando l'andamento degli eventi storici fu modificato dall'armistizio di Cassibile (SR) dell'8 settembre del 1943 gestito alla carlona dai comandi militari ed istituzionali italiani.

Tutti i corsisti furono radunati e fu loro comunicato della nuova situazione venutasi a creare con l'armistizio.

Coloro i quali avrebbero voluto continuare a collaborare con i tedeschi furono collocati da una parte mentre la stragrande maggioranza decise di non collaborare. Questa stragrande maggioranza fu capace di dire un NO istintivo e secco ad Hitler. Furono ammassati da un'altra parte, disarmati, arrestati e considerati traditori del Reich.

Favata fece parte di quella stragrande maggioranza, decise di non collaborare, pertanto divenne prigioniero di guerra dei tedeschi e successivamente fu considerato internato militare (IMI).

Ormai avanti negli anni con un pizzico di resistenza mi racconta quella pagina della sua esperienza di vita che non ha mai voluto scrivere o raccontare ma che avrebbe voluto solo dimenticare, rimuovere dai ricordi, come si trattasse di un brutto sogno, di un film dell'orrore. Molti sono gli avvenimenti che ricorda con nitidezza, mentre altri sembrano sbiaditi, scoloriti, forse perché è forte il bisogno non solo di dimenticare ma anche quello di stendere un velo pietoso sui grandi avvenimenti del ventesimo secolo che suo malgrado lo hanno visto coinvolto in prima persona rischiando la vita giorno dopo giorno.

In questo luglio 2015, afoso da togliere il respiro, vinto dal caldo, e dalle mie ricorrenti insistenze il sig. Favata ingrana la prima e parte a ritroso nel tempo, tempo lontano più di 70 anni. L'amico Favata rappresenta un'icona di un tempo andato, è uno dei pochi superstiti italiani che possono dire io c'ero. Anche le scuole del Comprensorio dovrebbero contattarlo per sentire dalla sua viva voce gli orrori della guerra che non è quella dei videogiochi.

Fummo caricati come tante bestie su carri merci e trasferiti in Ungheria a Yuvetik o qualcosa di simile, comunque nelle zone occupate dalla Germania mi dice, poi ci hanno spostati in Iugoslavia.

Ivi giunti siamo stati trasferiti nel campo di concentramento ZEMUN, zona nord di Belgrado, dall'altra parte del fiume Sava. Zona che in quel tempo faceva parte dello Stato indipendente croato degli Ustascia di Pavelic che di fatto rappresentò un campo di lavoro forzato essendo stati costretti con le buone o con le cattive ad aiutare i tedeschi nello spostamento degli armamenti e del vettovagliamento.

Avevamo la possibilità di muoverci all'interno della zona d'influenza tedesca, tanto che ebbi l'occasione di conoscere una bella ragazza iugoslava che di nome faceva Militza con la quale mi fidanzai.

Erano continui i combattimenti tra i partigiani slavi e l'esercito tedesco. Durante uno di questi scontri abbiamo avuto la possibilità di fuggire in tre,però andammo a cadere nelle strette maglie dei partigiani slavi i quali non credendo alla nostra storia ci puntarono le pistole alla tempia, ora al cuore, ora all'interno della bocca. Riuscimmo a spiegare loro, masticando un po' di iugoslavo, che facevamo parte dell'esercito regolare italiano e che non avevamo niente a che spartire con le camice nere fasciste che in quelle zone con lo scopo di reprimere il movimento di liberazione iugoslavo avevano commesso efferatezze indicibili macchiandosi di atti inconsulti di razzie e violenze. Tanto era l'odio contro gli italiani che abbiamo fortemente temuto per la nostra vita, ma alla fine fortunatamente riuscimmo a convincerli,i diffidenti rapporti iniziali si stemperarono, e ci inserirono a tutti gli effetti nel loro organico e diventammo tutti brat, tutti fratelli. In seguito seppi che quegli slalvi appartenevano alla XI divisione partigiana slava.

Riuscii a dare di me un quadro positivo che convinse gli slavi a guardarmi con un altro occhio. Si facevano dei tiri al bersaglio posizionando una latta molto distante e con i fucili bisognava colpirla, per fortuna io sono stato l'unico a riuscirci guadagnandomi il loro rispetto. Il mio nome di battaglia fu Carmen.

Partecipammo da subito nelle operazioni belliche contro i tedeschi,ma non avevamo quel grande pozzo di odio che covava e colava come sudore negli slavi. Si combatteva quasi sempre nelle impervie montagne o in fitti boschi, in silenzio e al buio si preparavano le imboscate.

In una occasione ricordo che cinque tedeschi, tra i quali un bel ragazzone di circa due metri, circondati, uscirono dal bosco con le mani alzate invocando salva la vita. Il soldatone tedesco ci fece capire di aver lasciato la famiglia con quattro figli. Fossimo stati noi italiani a decidere sulla loro sorte forse li avremmo fatti solo prigionieri. I partigiani slavi invece li freddarono senza pietà davanti ai nostri occhi stralunati. Un conto è sparare nel mucchio che vedi e non vedi un altro conto è uccidere a sangue freddo degli uomini con le mani alzate.

Non eravamo assassini, eravamo soldati e provavamo tanta solitudine nel vederci coinvolti in tanta efferatezza.

Riuscimmo una volta a circondare un gruppo di una novantina di tedeschi li abbiamo catturati, li abbiamo posizionati lungo un dirupo, nudi come mamma li fece.

Un mio superiore mi diede la sua pistola e mi disse di sparare ad ogni singolo tedesco. Non ne fui capace, mi rifiutai, tutto impaurito dissi che non ne ero capace. L'ufficiale partigiano slavo mi guardò storto ma non si scompose più di tanto al mio rifiuto, e con la sua pistola ad uno ad uno uccise i 90 tedeschi che colpiti alla tempia caddero nella scarpata sottostante.

Finita la brutale esecuzione, a dire il vero, mi aspettavo che l'ufficiale mi avesse riservato lo stesso trattamento dei tedeschi, ma non fu così tanto da essere qua ancora a raccontare l'episodio.

In una delle tante azioni contro i tedeschi mentre imperversava un violento temporale rimasi ferito alla mano sinistra. Non era facile individuare il luogo del mio ferimento, eravamo, almeno noi partigiani italiani, fuori dal tempo e dallo spazio. Il sangue, aiutato dalla pioggia, colava abbondantemente, fui trasportato insieme ad altri feriti su di una carretta improvvisata trainata da cavalli nel più vicino posto di medicazione male attrezzato e dopo una ventina di giorni fui mandato in convalescenza a Zagabria.

In quello stesso scontro contro i tedeschi un tale che di cognome faceva Battiato, mentre il nome non lo ricordo,trovandosi in postazione fu tranciato a metà petto da una mitragliatrice tedesca, non so come sia andata a finire ma purtroppo credo proprio che il mio compaesano originario del catanese non ne sia uscito vivo.

Dopo dicembre del 1943 sono stato incardinato come tutti gli altri partigiani italiani nella brigata Garibaldi al cui comando mi pare ci fosse Giuseppe Maras.

Alla fine della guerra i rapporti fra i partigiani italiani e quelli slavi andarono in frizione sulle questioni calde dell'Istria, di Fiume, di Trieste nonché sui facili eccidi delle foibe.

Nel marzo del 1945 ci fu l'ordine di rientro in Italia ma prima ci fermammo al confine tra la Slovenia e Italia pronti ad intervenire contro il nazionalismo sloveno che tentava di allargare i propri territori.

Successivamente a piedi siamo scesi fino ad Udine dove in una delle tante caserme abbiamo deposto le armi.

Ci consegnarono la somma di lire 5.000 a testa ed una scheda personale, come un foglio matricolare, andato perduto negli anni.

Fummo caricati su carri merci per raggiungere le nostre residenze. Quando i treni si bloccavano per i più svariati motivi proseguivamo a piedi o con altri mezzi di fortuna. A Roccalumera il treno non aveva previsto fermata, ma dietro mia richiesta il capotreno impietosito dalla mia divisa militare decise di fare rallentare la corsa davanti alla stazione consentendomi di saltare giù con il treno in movimento.

Eravamo a settembre del 1945,non ricordo il giorno, anche se in qualche cassetto dovrei avere un appunto in tal senso. Nessuno mi aspettava,ero diventato fantasma,quindi a piedi presi la strada per Mandanici. Nell'attraversamento degli abitati di Rocchenere e Pagliara in molti mi chiedevano notizie su chi fossi, a quale famiglia appartenessi, e da dove venivo.

Arrivato a Mandanici, dopo il primo disorientamento fui accolto dalla mia famiglia e dalla cittadinanza tutta in modo commosso e festoso. Non ricordo la presenza delle autorità comunali del tempo, ma sicuramente non c'erano, non era facile per loro accogliere un partigiano”.

Al suo ritorno s'impegnò in politica e nelle elezioni amministrative del 10 novembre 1946 fu eletto consigliere comunale. Così pure nelle successive elezioni del 3 aprile 1949. Fu Segretario del PCI locale svolgendo l'incarico con tanto impegno tanto da avere 60 iscritti. Gli successe nell'incarico Angelo Costa.

Mandanici e le condizioni economiche gli stavano molto strette così decise nel 1956 di andare in Argentina alla ricerca di migliori fortune. A fargli il cosiddetto atto di richiamo fu suo suocero Carmelo Misiti che da alcuni anni si trovava in Argentina.

Nel 1963 lasciò l'Argentina e fece ritorno a Mandanici, ma ancora per poco. Nello stesso 1963 partì per la Svizzera a fare il pittore in edilizia.

Ritornò, questa volta in modo definitivo, a Mandanici alla fine degli anni sessanta. Divenne imprenditore nel 1971 con la nota trattoria del Cacciatore non disdegnando di eseguire dei piccoli lavori di pitturazione in edilizia.

Tiene molto cari i ricordi cartacei di quegli avvenimenti che mi mostra con il giusto orgoglio di chi sa di avere compiuto delle gesta importanti per se e per l'Italia.

il 5 giugno del 1971 in occasione del ventesimo anniversario dell'unità antifascista nella lotta di liberazione dei popoli iugoslavi e per ricordare il comune contributo alla comune vittoria contro il fascismo e per l'unione e l'amicizia tra i popoli il maresciallo Tito ha conferito al nostro partigiano una medaglia ricordo in segno di riconoscenza e di riconoscimento”.
 

Nel 1984 il Presidente della Repubblica Italiana gli concesse il “diploma d’onore al combattente per la libertà d’Italia 1943-1945”.

Nella foto del 1942 Carmelo Favata è quello a destra

Mandanici-piazza bruno-luglio 2015

a.c.