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28 Agosto 2013

Questa notte ho fatto un sogno.

Mi si avvicinava un signore anziano e stempiato, occhiali e completo scuro con gilet del tutto fuori moda. Primi del Novecento, pensai. Mi sorrise e mi tese la mano. “Edgar Lee Master”, si presentò. “L’autore dell’Antologia di Spoon River?”, esclamai sbalordito. “Sì, proprio io”, proseguì, “ed è proprio per questo che ti ho cercato. Come sai, nel mio Spoon River ho descritto un paese della profonda provincia americana, raccontando le storie degli abitanti che l’avevano popolato. Perché non fai la stessa cosa con Mandanici? Non ti mancheranno certo ricordi e testimonianze”. Stavo per rispondere “Ma no, non credo di potercela fare. Io non sono Lee Master,,,”, quando improvvisamente il sogno s’interruppe.

Poi, sveglio ci ripensai. Perché no? Qualcosa poteva venirne fuori. Tentiamo.

Da dove cominciare? Da mio nonno. Da don Peppino Longo dalla folta barba bianca, che dal balcone del suo palazzetto seicentesco davanti al Duomo, oggi biblioteca comunale, riceveva e ricambiava i saluti dei passanti allora numerosi nella splendida piazzetta. Il palazzo Longo-Mastroeni, la chiesa, ancora più antica e, nell’altro lato di un immaginario triangolo, un altro palazzo, questo settecentesco. Ne era dominus don Tanino Scuderi, dall’eterna lobbia in testa e dai grandi baffi bianchì. Era il giudice di pace della comunità ed io, piccolo, ne avevo un sacro terrore. Si affacciava da un terrazzino e mi chiamava. “Peppe, hai fatto i compiti?”. Ed io a testa bassa, tremante: “Sì. Signor giudice”. Sul corso, davanti all’abitazione degli Argiroffi, la bella casa, poi distrutta e ristrutturata, di don Peppino Mastroeni, cognato del nonno. E a fianco quella dell’avvocato don Neli Prestandrea. Voleva raggiungere i cento anni d’età e ce la fece, lucido e in buona salute. Salvo a morire pochi giorni dopo. Ma ormai il traguardo era stato raggiunto.

Gli Argiroffi. Due fratelli soprattutto, Ciccino e Giovannino. Il primo, anche lui fornito di un bel paio di baffoni, lo si poteva vedere nei suoi ultimi anni seduto davanti casa a conversare e salutare. Il secondo è stato per molti anni, nel dopoguerra, sindaco del paese. Strano destino quello degli Argiroffi: tre generazioni di sindaci. Il primo, Emilio, il padre dei due fratelli, il secondo, Giovannino, e per ultimo un altro Emilio, figlio di Giovannino, sindaco non di Mandanici, ma di Taurianova, e senatore eletto nelle liste del partito comunista per più legislature.

A tre chilometri di distanza da Mandanici, a Badia, si era costruito una villetta l’ingegnere Nino Mazzullo, terzo figlio del garibaldino Luigi, ideatore e realizzatore della strada Roccalumera-Mandanici. Gli altri due figli erano Attilio e Pantanico. Il primo, trasferitosi a Messina, era diventato presidente della Camera di Commercio. Il secondo, medico a Milano, mi parlò un giorno di una Mandanici dell’Ottocento, quando non c’era ancora il corso e il paese saliva senza interruzioni dal torrente alla “Rocca”. “Vita difficile”, mi disse, “ma tanta solidarietà tra i paesani”. “E poi”, aggiunse sorridendo, “che bei carnevali che si facevano”. Sul corso, a Mandanici, era facile incontrare don Peppino La Scala, pastore valdese, appoggiato a un bastone di cui non aveva assolutamente bisogno, dritto e robusto com’era. Era stato allievo di Malachia Scuderi, il mitico pastore che aveva reintrodotto in paese la religione protestante, scomparsa o quasi dopo le persecuzioni alle quali erano andati incontro gli eretici del Cinquecento.

Chi sta nell’attuale piazza Fasti (una volta soltanto un ponte) e guarda verso nord scorge subito un moderno castello, del tutto anomalo rispetto all’urbanistica paesana. E’ l’opera di uno stimato architetto mandanicese, Antonio Ricciardi, progettista e realizzatore anche del ponte di Pietrafitta. L’aveva costruito per viverci insieme con il fratello Agatino, padre di Maria Cesara e morto a Palermo durante un bombardamento aereo. Sempre in piazza Fasti, ad angolo, sorge la bella casa del maestro Tracuzzi, insegnante elementare di molte generazioni di paesani. Suo nipote, Pippo Magaraci, fu per qualche tempo un estroso sindaco di Mandanici. Non c’erano televisioni nel paese di un tempo e si contavano sulle dita le radio e i lettori di giornali. Ma a diffondere le notizie provvedeva con la sua voce potente il nano Salvatore, il “banniaturi” comunale. Lo si sentiva dappertutto.

Due i macellai, Peppi “l’orbu” e Micio Cacciola. Carne bovina, suina, (i maiali si sgozzavano con un rito atroce), ma soprattutto castrato, “’a carni ‘nfurnata” che ancora oggi è uno dei piatti prelibati della cucina paesana. Muratore, Dionisio Lenzo, falegname don Paolo, dall’enorme ernia inguinale che appesantiva vistosamente i pantaloni. Artigiani scomparsi insieme con i loro mestieri. Ma chi voleva recarsi in automobile da Mandanici a Messina non aveva che da rivolgersi a Peppino Papandrea, proprietario e autista dell’unica auto del paese, una “501” che si avviava a manovella e che al posto del clacson aveva una vistosa tromba dal sonoro rimbombante. Don Concettino Barbera esibiva la sua paglietta e i suoi impeccabili abiti estivi, don Cesare spaventava i bambini di Mandanici rincorrendoli tra i vicoli con il bastone alzato. Era uno scherzo, s’intende. Ma smise di scherzare quando apprese che l’unico nipote, Cesarino, era tra i dispersi del corpo di spedizione italiano in Russia, durante la seconda guerra mondiale. Concetto Fabrini non aveva lavoro (quanti gli emigrati di quegli anni!) e si trasferì a Roma in cerca di fortuna. In breve tempo divenne il più grosso rivenditore di biciclette della capitale, con filiali in tutto il Lazio. Il barbiere era Vito, dagli occhi difettosi ma dalla mano ferma nell’impugnare il pericoloso rasoio a mano libera. Il mandolino era lo strumento magico di Nicola (Niculedda), poi trasferitosi a Roccalumera ma sempre con Mandanici nel cuore.

Nell’agosto del 1943 l’esercito anglo-americano aveva concluso l’occupazione della Sicilia. Subito dopo un gruppo di giovani mandanicesi costituì una camera del lavoro. Alcuni di loro avevano fatto la guerra e tutti erano animati da sincero spirito democratico. I loro nomi? Melo Fasti, Peppino e Bastiano Ricciardi (figli di Peppe l’orbu), Tanino Papandrea (fratello dell’autista Peppino), Beniamino Patti, Pasqualino Ravidà. Poi le loro strade si divisero. Tanino si iscrisse alla Democrazia cristiana e fu per qualche tempo sindaco del paese, Pasqualino si dichiarò comunista, Melo, Peppino e Bastiano aderirono al partito socialista. Gli ultimi tre diedero poi vita un’amministrazione comunale longeva ed esemplare. E Melo fu il sindaco per eccellenza, l’amministratore al quale si deve la maggior parte delle opere realizzate a Mandanici negli ultimi decenni.

Certo, di tanti altri si potrebbe parlare. Ma questi sono i personaggi che più mi hanno colpito nei miei soggiorni di ragazzo a Mandanici. E forse riescono a dare il senso di una comunità. Che altro dire di loro? Concludere, con Edgar Lee Master: “Tutti dormono, dormono, dormono sulla collina”.

Mandanici 28 agosto 2013

Peppe Loteta