30 ottobre 2024
Mandanici raccontata.
In
risposta al nostro invito a custodire i ricordi di Mandanici, Gabriele
Ciatto ci ha inviato questo racconto di fantasia, ispirato ad una vicenda
realmente accaduta e tramandata oralmente. Con le parole di Gabriele,
riprendono vita i ricordi della sua amata nonna Carmela, riportandoci a un
tempo lontano. L'immagine che accompagna il testo fa da cornice a questa
narrazione:
Era pomeriggio, quando i
bambini, insieme ai loro genitori, tornavano dalla campagna. La terra di Don
Ciccio Argiroffi era nascosta alla base del grande Monte Cavallo, e tanto
lontana dal paesino di Mandanici. L’estate era arrivata, e non si muoveva
una foglia, anche la sera si sentiva il caldo tipico della Sicilia. "oooou,
oooou, accùra, accùra" ripeteva Concetto all’asino, che trasportava due
grossi carichi di ginestra, e ogni tanto provava a correre; l’animale
desiderava ritornare nella sua stalla, come pure il resto della famiglia;
perché a quel tempo, l’asino era considerato parte della famiglia e mezzo di
lavoro fondamentale. Ogni tanto Concetto si girava verso la moglie
Giuvannina, e la guardava negli occhi, percependo la sua stanchezza dopo una
giornata di duro lavoro. Poi c’erano i bambini, erano anche loro sfiniti, ma
saltellavano qua e la, e si rincorrevano. Il più grande, Pippineddu,
trasportava una piccola bèttula, all’interno c’era un pezzo di pane avanzato
dal modesto pranzo della giornata, e poi c’era un piccolo coltello. La
sorellina Maria, affamata, ogni tanto domandava al fratello "e quannu mu
dugni un mustrittu? U tagghiamu e nu spattemu, menzu jo e menzu tu!" Il
fratello però non era intenzionato, forse pensava ad altro. Così le ore
passavano e la piccola famiglia di contadini si avvicinava al paese, che era
ormai visibile in lontananza. Ad un certo punto del percorso, iniziava una
ripida discesa e si raggiungeva lo stretto alveo du ciumi Càvuddu, in estate
sempre secco, ma in inverno dal carattere mutevole e pericoloso. Ormai solo
una breve salita separava i contadini dal loro paese e dalla loro casa. Come
loro, tanta altra gente faceva ritorno a casa, provenendo dalle varie
località di campagna intorno al paesino. Tante famiglie, però, soffrivano la
mancanza degli uomini: dei mariti e dei figli maschi, che erano partiti per
il fronte. E potevano comunicare solo tramite qualche cartolina. Anche il
figlio maggiore di Concetto, Carmelo, era partito ormai da un anno. E quindi
il buon padre di famiglia, che non era stato convocato per aver superato
l’età, pensava anche al suo primogenito, che come tutti i compagni rischiava
la vita. Raggiunta la modesta abitazione, Concetto si occupò come di
consueto di condurre l’asinello nella sua stalla, poiché non v’era nulla da
mangiare i bambini si spartirono quel pezzetto di pane, alla fioca luce
della lumèra e poi rapidamente andarono a dormire. Un solo piccolo letto
doveva bastare per entrambi, ma faceva troppo caldo, e non si riusciva a
prendere sonno. Dopo qualche ora Maria smosse la gamba del fratello, "Pippinu,
Pippinu, scuta, scuta chi dici a mamma" Dal piccolo solaio di legno, si
sentiva tutto ciò che chi stava sotto, nell’unica stanza della casa, diceva.
"mari Cammela, aviti ragiuni, ora vegnu cu vui, cussì mi ‘nzignati puru a
mia". Peppino si era reso conto, che la mamma stava parlando con un’anziana
donna del paese, che ogni tanto l’andava a trovare e con la quale vi era un
certo rapporto di rispetto. La sorellina moriva dalla curiosità di capire
cosa succedesse, e così i due decisero di seguire la mamma e l’anziana
signora, senza farsi vedere. Vicino casa, una stretta vinedda raggiungeva la
chiesa principale del paese, che sorgeva su una piazzetta dalla forma simile
a un triangolo, le due donne in effetti si recavano proprio lì. Peppino
faceva cenno alla sorellina di fare silenzio, e arrivati dietro l’angolo i
bambini si fermarono ad ascoltare. Più voci di donne si mischiavano in un
insieme di frasi sussurrate. La luce della luna piena batteva sulla facciata
del monumento, e metteva in risalto la pietra rossa, dal grande finestrone
centrale, posto sulla parte alta del prospetto, si intravedeva il suntuoso
interno. Peppino sussurrò alla sorella "di ddà, di ddà, annamu, dai!"
facendole cenno di attraversare la viuzza e poi di nascondersi dietro il
muro di una delle case che davano sulla piazza. Da lì, senza essere visti,
avrebbero potuto osservare ciò che le donne facevano. Esse erano
inginocchiate alla base delle due colonne del portale, sugli scalini. E
pronunciavano delle frasi, con le mani giunte e lo sguardo rivolto al cielo.
Peppino ascoltò meglio. "San Giuvanni Decollato, picchì fustu carciaratu….."
. Poi il bambino capì. Guardò la sorellina e le disse: "stannu dicennu a
nuvena di San Giuvanni" la bambina non capiva, e il fratellino cominciò a
spiegarle ciò che alcuni mesi prima aveva appreso dalla stessa sua mamma. "Vonnu
sapiri chi ci succedi e carusi chi patteru pa guerra, e ci dumannunu o Santu
mi ci manna un signali, si è un signali bonu, voli diri chi sti figghioli si
salvunu e girunu a Mannanici". E la bambina e allora chiese al fratellino
"ma comu mai u stannu facennu ora? Cammelu avi un annu chi pattiu, io puru u
vogghiu sapiri!" "Si po fari sulu stanotti, picchì dumani è
u vintottu giugnu, u ionnu di San Giuvanni". Le donne
continuavano la loro invocazione "o di beni o di mali, facitimi vidiri occa
signàli, si è di beni luci ddùmari e campani sunàri, si è di mali scecchi
ragghiari e potti chi nchiudunu" Poi tacevano. Volgevano i loro occhi pieni
di lacrime verso l’alto, verso la croce che stava sulla sommità del
campanile; questa, perfettamente illuminata dai raggi lunari, proiettava la
sua ombra sul giàcato della piazza che di notte era un luogo così mistico e
suggestivo mentre, di giorno, era animata dalla vita quotidiana. Quella
stessa vita che le donne volevano ritrovare, che era stata interrotta dalla
guerra, dalla lontananza dei loro figli. Ad un tratto nella campagna
circostante, ben visibile oltre le case del paese, apparve una luce, forse
era uno di quei soliti incendi notturni che d’estate sono molto comuni.
Quella luce che le donne si sforzavano di veder comparire era la stessa loro
forza, la forza dei loro cuori e delle loro menti che le spingeva ad
affrontare quel momento duro.
Racconto di fantasia, basato su una vicenda realmente
avvenuta a Mandanici durante la seconda guerra mondiale e basato su ricordi
tramandati oralmente. I personaggi portano nomi di fantasia, i luoghi invece
sono quelli reali.
G.C.
|